In questo maremagnum digitale forzato di questi giorni così strani, disarmanti, disorientanti, mi sono trovata anche io subito spiazzata, disorientata e investita, come molti di noi, da sentimenti diversi e altalenanti. Questo isolamento forzato mi sta dando la possibilità di riflettere su molti aspetti, umani e professionali; sui segni, forse ancora poco visibili, che la drammatica esperienza legata al coronavirus lascerà su ogni individuo. Improvvisamente siamo stati tutti chiamati a una esistenza nuova, che sta riformulando il concetto stesso di libertà come siamo soliti intenderla.
I sentimenti provati durante l’isolamento, così come dichiarati dalle persone stesse, sono soprattutto negativi:
paura, tristezza, nervosismo e sensi di colpa…
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere TEDx Vicenza, “Cultura digitale: quando la vera innovazione significa ritrovare la nostra umanità” e scorrendo l’articolo, nella sezione in cui si citano “Le tre leggi fondamentali della Percezione del Progresso”, scritte da Douglas Adams nel 1999:
- Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
- Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
- Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.
Leggendo, attraverso voli pindarici a me a volte consueti, mi sono tornate alla mente alcune delle mie riflessioni veloci e istantanee che mi è capitato di fare durante varie call, skypecall, videoconference, etc, (chiamatele come volete):
Quanta della nostra umanità ci portiamo “a video”?
Io, cosa cerco nello sguardo “digitale” del mio interlocutore?
Umanità?
Attenzione?
Reazione?
Stimolo?
Viviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale (Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993).
La compressione spazio-temporale, in base alla quale
«lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è»
(Harvey).
L’idea che si possano alzare confini e muri con l’utilizzo di strumenti digitali è ciò che deteriora la mia idea di umanità: tende a conferirci l’abitudine di tracciare linee, per esempio, tra chi può far parte di quest’umanità e chi no. Al contrario, la necessità che abbiamo è quella di capire che l’umanità è una sola.
Ma possiamo comunque provare a dire in cosa consista l’umanità in questo momento particolare? Quali sentimenti, azioni, parole sono più suscettibili di dare un significato all’idea di essere umani?
Domande che mi faccio e che spesso mi lasciano in modalità riflessiva senza risposte nell’immediato:
« Quale tipo di umanità sceglieremo, collettivamente e individualmente? ».
La risposta alla domanda forse dipende da come definiamo noi stessi, da ciò che vogliamo diventare e da come trattiamo gli altri che condividono il nostro ambiente (reale o virtuale che sia).
Ciò che siamo è l’indispensabile punto di partenza.
Ciò che vogliamo essere è in parte il punto d’arrivo.
Siamo perduti nel momento in cui perdiamo la capacità di pensare autonomamente e la capacità di valutarci e definirci in modo libero. Non esiste più una nostra confort zone caratterizzata da un tempo, uno spazio e una prospettiva soggettiva e collettiva regolari, ma una condizione esistenziale mutata profondamente, caratterizzata da un tempo DIVERSO da riempire a tutti i costi e in tutti i modi che fondamentalmente ci lascia più tempo alla riflessione di sé, di chi siamo noi senza gli altri che sono distanti…