“Una fotografia che è un vero e proprio pugno nello stomaco è quella condivisa da una mamma. La scena straziante immortala una bambina di 5 anni che aiuta e conforta il suo fratellino malato di leucemia”. Tutto l’amore di questa bambina per suo fratello è racchiuso in uno scatto straziante in cui si vede Aubrey che conforta il fratello in bagno e gli massaggia la schiena rassicurandolo durante una crisi dovuta probabilmente agli effetti collaterali delle terapie antitumorali.
Il fastidio che si scatena in me forse nasce dalla sensazione che la bella parola ’empatia’ venga usata a sproposito e senza alcuna cognizione di causa.
Ne conosciamo davvero il significato?
Oggi, in una società perennemente in corsa contro il tempo e spesso in conflitto con se stessa, è l’ansia da prestazione l’unica vera “protagonista” a dominare la scena. Ansia di arrivare primi, ansia di fare sempre di più e meglio, ansia di avere tutto e subito. E così c’è veramente poco spazio per l’empatia.
La prossima volta in aula non porterò una foto gradevole alla vista, porterò questa foto, perché in sé racchiude non solo il concetto di empatia, ma molto di più.
E’ un dovere morale che, per chi si occupa di Risorse Umane (di qualunque genere ed in qualunque contesto), non può non sentire, soprattutto in tempi in cui scarseggiano sempre più le occasioni per vedersi, stare insieme, comunicare, scambiare idee e confrontarsi (complice internet e le tecnologie multimediali che hanno reso la comunicazione faccia a faccia quasi un “optional” privilegiando chat e sms).
Probabilmente dovremmo prendere esempio dalla Danimarca, andare a scuola di empatia: si chiama Klassens tid ed è l’esperimento che sta spopolando nelle loro scuole. Per un’ora a settimana, ai bambini viene insegnato ad ascoltare gli altri, così da imparare ad approcciare i problemi in maniera costruttiva e per maturare nella loro personalità una forte appartenenza di gruppo. In una parola: a creare empatia.
Lezioni semplici ma efficaci: gli alunni preparano a turno una torta a cioccolato (il cacao non è a caso un importante antidepressivo), e mentre ne mangiano una fetta raccontano agli altri i loro problemi, le loro aspettative, le loro preoccupazioni.
Pensano e si esprimono senza alcun imbarazzo, perché si sentono liberi e soprattutto perché percepiscono solidarietà e spirito di gruppo: non si sentono soli, bensì parte di una comunità.
Un altro aspetto da non trascurare è che l’empatia non è soltanto osservare le proprie emozioni per rapportarsi in maniera costruttiva con gli altri, ma è anche imparare a gestire e assorbire l’insuccesso. Insuccesso da vedere come scelta autonoma, scelta differente legata a fattori diversi. Non fallire, ma decidere di fallire, perché vincere in alcuni casi significa scendere a compromessi poco pregevoli sul piano etico.
Chi decide liberamente di fallire, in definitiva, non è meno determinato di chi impiega tutte le proprie forze per ottenere il posto di lavoro: ha solo applicato l’empatia, per arrivare a quello che ritiene più giusto per lui.