Noi occidentali postmoderni del XXI secolo viviamo, dicono, nel migliore dei mondi possibili. O almeno, nel più libero di tutti, a memoria storica.
Siamo così tanto emancipati, sciolti da legami e liberi da aver rinunciato ad essere noi stessi.
La fine delle identità è infatti uno dei tratti distintivi, forse il più sconcertante, della lunga stagione post moderna.
Siamo talmente “post”, da essere addirittura posteri di noi stessi.
Aristotele fondò la sua filosofia sul principio di identità: ogni cosa è se stessa e non è nient’altro.
In un momento storico come questo mi sarei aspettata di vedere una corrente umana che avrebbe fatto trapelare maggiormente una nuova #umanità; la realizzazione di un nuovo #umanesimo ; una voglia di semplificazione interiore ed esteriore. Invece constato che continuamente siamo presi alla corsa agli “armamenti” delle nostre corazze personali e professionali, siamo indaffarati a distinguerci e contraddistinguerci nel mondo web (per ora abbiamo questo!), a stringere patti sottintesi prima a destra e poi a sinistra ( a seconda del mero singolo interesse), costruendo “automi umanoidi futuristici” che quotidianamente corrono una corsa tutta loro.
Questo modo di vivere virtuale, questo non fermarsi mai, questo bisogno costante di aggiornamento è diventato ancora più onnipresente.
L’umanesimo, secondo Tillich (1963), “afferma che lo scopo della cultura è l’attualizzazione delle potenzialità dell’uomo in quanto portatore di spirito” e “la saggezza può essere distinta dalla conoscenza oggettivante (sapientia da scientia) per la sua capacità di manifestarsi al di là della scissione di soggetto e oggetto.” Questa saggezza è il frutto dell’auto-consapevolezza; l’uomo può trascendere sé stesso e vedersi come un oggetto tra gli altri oggetti. Ha raggiunto lo status di una persona nel senso esistenziale.
E’ un lutto con noi stessi: tutte le volte che perdiamo la nostra stessa persona e la possibilità di condividere con noi stessi esperienze, pensieri, affetti ed emozioni. Uno degli aspetti che evoca è lo stato di profonda e triste solitudine, che cresce a sua volta con il grado di reciprocità, di affinità, di condivisione, di attaccamento e di comune generazione di senso esistenziale che sembrano essersi allontanati da noi stessi.
Ma la perdita è definitiva?
È per sempre oppure c’è la possibilità effettiva di ritrovarsi?
Ecco che allora dobbiamo destrutturarci per ritornare più umani.
Con il passare del tempo, nell’onnipresente mondo virtuale, il frastuono del web diventa sempre più forte. Ogni giorno si passano ore, da soli e in silenzio, attaccati a un portatile convinti di sentirci come in mezzo a una folla cacofonica di parole e immagini, suoni e idee, emozioni e invettive, una galleria del vento assordante e soffocante.
Probabilmente, a molti di noi, questo rumore è irresistibile… comunicare con gli altri come una voce senza corpo
Avete mai visto Interstellar, film del 2014 diretto da Christopher Nolan ? Consiglio di vederlo!
A Nolan interessa ben poco dei temi che affronta e che non hanno a che vedere con i sentimenti umani, ma con la razionalità. Non gli interessa nulla, in fondo, dell’Apocalisse che sta mettendo in ginocchio l’umanità; della questione della Terra che si esaurisce e si ribella e della relatività dell’uomo rispetto ad essa.
A di là dello splendido film, la parte del film a partire dalle dimensioni della mente in relazione a quelle dello spazio e del tempo per me è geniale! E se si riparte ancora, lo si fa nuovamente per amore. Senza sbandierarlo ai quattro venti, sempre un po’ nascondendolo sotto il tappeto del nuovo inizio, della volontà egotica di conquista e esplorazione (“siamo esploratori e pionieri”, dice McConaughey all’inizio del film): ma comunque, per amore solo per amore.